L’inizio è sempre il momento migliore, si è
conquistati da una gran voglia di fare, un’euforia che potrebbe dissolversi in
un lampo. Ma Paolo questa volta ci credeva, doveva restare ancorato alla sua
convinzione.
Peccato
solo che quell’inizio, il suo inizio, fosse coinciso con una fine inevitabile.
L’iniziativa,
finalmente, era partita da lui. Per una volta si era messo prima degli altri,
prima della paura di fallire e ritrovarsi ancora solo.
La verità
è che si era sempre sentito solo. Quella, la solitudine, era una delle sue
poche certezze, il leitmotiv degli anni trascorsi. Talvolta l’aveva
anche inseguita e difesa ma, il più delle volte, subita.
Anche con
la sua fidanzata era stato così. Si erano conosciuti alla scuola media, tra i
banchi di legno smaltato, gli intervalli che sapevano di merendine al
cioccolato e succhi di frutta. Lei era stata la sua prima cotta. Virginia era
carina, aveva tutto quello che immaginava dovesse avere una fidanzatina. Non
l’avrebbe voluta cambiare con un’altra.
La loro
era stata una storiella adolescenziale senza strascichi, non aveva fatto
soffrire nessuno. Nessun cuore spezzato. Paolo non aveva rimpianto quel primo
amore, come probabilmente, non l’aveva rimpianto lei. Ma poi, circa dieci anni
dopo, si erano rivisti attraverso amici in comune. Una cena, due parole, uno
scambio di sguardi: il momento giusto per entrambi.
Per
alcuni anni, si erano voluti bene, sopportati più che supportati. Poi, era
subentrata la routine, le incertezze che a furia di essere ignorate erano
diventate presenze certe. Inevitabilmente, il punto di rottura era arrivato.
Ora il
suo pensiero correva alla discussione avvenuta la sera prima con Virginia.
Quasi le nove. Soggiorno di Virginia. Capelli ricci e scuri di Virginia. Sandali
di Virginia: il cinturino tra le mani, da allargare o stringere? Nemmeno
ricorda com’era vestita, la sua fidanzata si era sempre avvalsa delle ultime
tendenze per uniformarsi e sentirsi parte di qualcosa. L’immagine, ben prima
delle parole, dei progetti, della condivisione delle parole e dei progetti.
Se lo
doveva quantomeno ammettere, dentro quella relazione si erano sentiti entrambi
protetti, al sicuro, come parte della società esigeva, ma era solo un rifugio
da ciò che realmente voleva e desiderava.
Quando
non si piaceva allo specchio e si trovava ogni tipo di difetto, quando faticava
a comprendersi o percepiva negli altri una forza che avrebbe voluto avere,
c’era almeno quella certezza: anche io,
Paolo, come tutti, ho una fidanzata.
Era
entrato in quell’ingranaggio ben rodato di apparente normalità, esattamente
come ci erano entrati tutti i suoi amici e i suoi genitori e prima ancora i
suoi nonni <così fan tutti>
Lui non
era mai stato un tipo da passioni forti, non se l’era mai concesso. Meglio procedere
col freno a mano tirato. Erano da poco suonate le 7.15; chi l’aveva deciso che
ci si dovesse alzare proprio a quell’ora per essere in ufficio entro le 8.30?
Abitudini,
pensò Paolo, un altro passaggio che la società impone.
Dalla radiosveglia uscì un vecchio pezzo di Zucchero che
lo fece trasalire: Il Volo. Paolo
si ritrovò catapultato vent’anni addietro, nell’aula delle medie. La prof di italiano, passando tra i banchi, aveva visto
di sfuggita qualche verso di un testo su cui lui stava lavorando da giorni e ne
era rimasta colpita.
“Siamo caduti in volo, mio sole. Siamo caduti in volo,
mio cielo…” aveva letto sottovoce, rivolgendogli uno sguardo ammirato.
˂Suona molto bene, Paolo, con poche parole hai saputo
definire un’atmosfera. Posso leggerlo ai tuoi compagni? ˃.
Paolo,
preso in contropiede, avrebbe voluto rispondere con un secco ‘no’, invece ne
uscì un timido ˂˂sì˃˃.
I suoi
compagni non avevano manifestato lo stesso entusiasmo, ma era stato bello
ricevere quell’attestato di stima da un adulto, per giunta, che sapeva tante
cose e apprezzava i veri poeti.
Rientrato
a casa non ne aveva fatto parola con nessuno, si era come sempre un po’ difeso;
quella profonda timidezza riusciva a spazzare via ogni impeto di entusiasmo,
ma, soprattutto, perché non sarebbe fregato a nessuno, quindi meglio non
verificarlo.
A
vent’anni di distanza, Paolo aveva provato un moto di riconoscenza nei
confronti della prof di italiano che, per una volta, aveva saputo cogliere la
sua vena artistica, tanto che poi durante la ricreazione l’aveva richiamato
alla cattedra chiedendogli ˂˂ti
va di scrivere l’intero testo? Vorrei sottoporlo a un mio amico paroliere˃˃.
L’intero testo?
Certo che gli andava. Aveva tante di quelle parole dentro la testa che, a
giorni, vorticavano come dentro un frullatore. Nel giro di un giorno le portò
il testo completo, non era stato difficile, le parole venivano da sole, bastava
lasciarsi guidare dalle immagini che vedeva davanti a sé.
Ma poi
quel meccanismo si inceppò e Paolo non seppe più nulla; non ebbe il coraggio di
chiedere informazioni alla prof che sembrava essersene dimenticata.
Eppure,
qualcosa doveva essere successo se, dopo parecchi anni, Paolo si era ritrovato
quella sua strofa nella canzone di Zucchero. Semplice casualità? Pura
coincidenza? O quello che in psicanalisi viene chiamato ‘sincronismo di
pensiero’? Ma forse gli piaceva di più pensare che si fosse trattato di un
misero plagio come ce n’erano sempre stati in ambiente musicale. Un grande
autore di quella portata gli aveva rubato l’idea!
Si
riguardò allo specchio e gli parve di vedere un’altra persona, un Paolo diverso
da quello del giorno prima. Non si sentiva né meglio né peggio, non gli era ben
chiaro quali sarebbero state le conseguenze di quel colpo di testa, ma almeno
cominciava a sentire qualcosa: un tremolio leggero, una scossa tra la gola e il
petto. Non gli accadeva da anni di sentirsi
vivo. Di sentirsi Paolo.
Colore.
Gli serviva un colore diverso per inaugurare la nuova stagione emotiva, basta
con la gamma dei bianchi e dei celestini per il sopra e del nero e dei blu per
il sotto. Poteva sottrarsi all’obbligo di indossare una divisa, e perché lo
faceva? Già la solita regola non scritta, o forse si, policy aziendale
Avrebbe
cominciato proprio da lì, dalla sua immagine. E anche dal colore.
Aprì
l’anta dell’armadio, era un tripudio di tinte monotone, la tastiera di un
pianoforte: bianco-nero, celestino-blu, che lo fece rabbrividire. Estrasse una
camicia di un azzurro intenso che non ricordava nemmeno più di avere, forse era
un regalo di Virginia. La indossò con un maglioncino verde, quell’insolito
contrasto lo fece sorridere. Come lo avrebbero guardato i suoi colleghi? Quelli
sembravano essere stati intinti in un secchio di grigio ardesia.
Si mise
un profumo che non usava da anni, infilò un paio di jeans chiari, si riguardò
allo specchio. Non si piaceva del tutto, ma qualcosa andava meglio.
˂Se non parte da me, da chi deve partire? ˃ pronunciò a voce alta, tentando di assumere
un’espressione decisa e un tono credibile.
Devo
darci un taglio, si disse, uscendo dalla sua camera e dirigendosi in cucina;
respirò l’odore di cibo riscaldato, di cipolla rosolata, un’altra certezza
nella sua vita. Pasta al forno. Melanzane alla parmigiana. Pollo allo spiedo e
cipolle. Pizza e ancora pizza. ˂Hai
voglia ingrassare! ˃.
Davanti
al frigorifero gli balenò nella testa un’altra idea; più che un’idea, alcune
immagini e nemmeno troppo sfuocate. Una tazza di latte di un bianco strano coi
cereali, un bicchiere di spremuta, una tazza di macedonia, un piatto di riso
con le zucchine, del pesce alla griglia con una fetta di limone sul bordo del
piatto…
Non aveva
per nulla fame; eppure, quelle pietanze gli sfilarono davanti agli occhi come
le mail che, di lì a poco, avrebbe dovuto leggere. ˂Cazzo, che palle! Ma chi ci vuole andare in
quell’ufficio di merda? ˃.
Da tempo,
non sapeva nemmeno più da quanto, era precipitato nelle sabbie mobili
dell’indolenza, una passiva accettazione aveva guidato gli ultimi anni della
sua vita, forse tutta la sua vita. Scrutò dentro il frigorifero: niente latte
di soia, niente arance o limoni, niente frutta. Solo delle gran schifezze.
Poteva partire anche da lì, dal suo frigo, dal suo stomaco. Si impose che
quella sera avrebbe buttato via snack e formaggi spalmabili, insaccati e
intingoli vari che depistano le papille gustative.
Aveva
ancora un po’ di tempo, si aggirò inquieto per l’appartamento. Tipica casa di
single: una stanza, un bagno, un cucinotto, un soggiorno e una combinazione di
stili che tenevano conto più della praticità che di un gusto estetico ben
definito, ed ovviamente non erano i suoi. Molto di quello che ci aveva trovato
al momento del suo arrivo, era rimasto.
Ma quegli
spazi, ora che aveva compiuto la sua scelta inevitabile, gli sembravano
diversi; più ariosi. Li guardò come se non li avesse mai guardati veramente, da
un’angolazione diversa: i mobili composti dell’Ikea, rigorosamente bianchi,
acquistati in fretta un pomeriggio piovoso, assemblati con la certezza che non
sarebbero stati quelli definitivi. Si era ripetuto spesso che, non troppo in
là, li avrebbe cambiati ma poi non lo aveva mai fatto.
Anche la
carta da parati anni Settanta avrebbe voluto cambiare; a quelle fantasie
geometriche, dai colori eccessivi, il suo occhio si era ormai assuefatto. Se li
era ritrovati lì e aveva scelto di farceli restare; ad un’alternativa non aveva
mai pensato, dal momento che richiedeva un gusto
personale. Ma era tempio di cambiare pure quelli, sarebbe stato un gran
lavoro, ma gli erano “spuntati i coglioni finalmente”
Basta con
questa carta vecchia e sporca di fumo, quanti vi avevano fumato lì dentro? Lui
di sicuro, e anche parecchio; quella che un tempo - prima del suo arrivo in
quell’appartamento - era stata la cameretta dei bambini, era stata trasformata
in una sorta di studio, di stanza del fumo, dello svago, del tempo libero.
Aveva
avuto la sensazione che in tutta quella provvisorietà si sarebbe sentito a
proprio agio, per nulla minacciato. Al momento poteva bastargli.
Quella
mattina gli era sembrato di vedere molta più luce nella ‘stanza di
rappresentanza’, gli piaceva chiamarla così, immaginando che un tempo non
troppo lontano, la fosse stata: un luogo capace di accogliere una comitiva di
gente morsa dalla tarantola della convivialità.
Lui, un
tipo conviviale non lo era mai stato, tant’è che quella stanza aveva visto ben
pochi amici, cene e risate. Ma c’era una cosa che Paolo aveva sempre fatto, con
assiduità, si era preso cura del pavimento di marmo con una cera speciale che
sapeva lucidarlo e proteggerlo dal tempo, adorava vedere la luce riflessa sul
marmo lucido, gli trasferiva un senso di pace. Ora, era venuto tempo di
consumarlo, quel marmo
Uscì di
casa, infilò la chiave nella serratura, diede due mandate, non prese
l’ascensore.
˂˂Oggi, scale˃˃.
Anche da
qui posso cominciare: dalle scale. Possibile che avesse scelto di non
scegliere? Di farsi trascinare anche da quell’ascensore?
˂˂E chi se ne frega della tranquillità˃˃ pronunciò a voce alta, disponendosi alla guida e
mettendo in moto.
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