10/08/10

1)Sentirsi Paolo




L’inizio è sempre il momento migliore, si è conquistati da una gran voglia di fare, un’euforia che potrebbe dissolversi in un lampo. Ma Paolo questa volta ci credeva, doveva restare ancorato alla sua convinzione.

Peccato solo che quell’inizio, il suo inizio, fosse coinciso con una fine inevitabile.

L’iniziativa, finalmente, era partita da lui. Per una volta si era messo prima degli altri, prima della paura di fallire e ritrovarsi ancora solo.

La verità è che si era sempre sentito solo. Quella, la solitudine, era una delle sue poche certezze, il leitmotiv degli anni trascorsi. Talvolta l’aveva anche inseguita e difesa ma, il più delle volte, subita. 

Anche con la sua fidanzata era stato così. Si erano conosciuti alla scuola media, tra i banchi di legno smaltato, gli intervalli che sapevano di merendine al cioccolato e succhi di frutta. Lei era stata la sua prima cotta. Virginia era carina, aveva tutto quello che immaginava dovesse avere una fidanzatina. Non l’avrebbe voluta cambiare con un’altra.

La loro era stata una storiella adolescenziale senza strascichi, non aveva fatto soffrire nessuno. Nessun cuore spezzato. Paolo non aveva rimpianto quel primo amore, come probabilmente, non l’aveva rimpianto lei. Ma poi, circa dieci anni dopo, si erano rivisti attraverso amici in comune. Una cena, due parole, uno scambio di sguardi: il momento giusto per entrambi.

Per alcuni anni, si erano voluti bene, sopportati più che supportati. Poi, era subentrata la routine, le incertezze che a furia di essere ignorate erano diventate presenze certe. Inevitabilmente, il punto di rottura era arrivato.

Ora il suo pensiero correva alla discussione avvenuta la sera prima con Virginia. Quasi le nove. Soggiorno di Virginia. Capelli ricci e scuri di Virginia. Sandali di Virginia: il cinturino tra le mani, da allargare o stringere? Nemmeno ricorda com’era vestita, la sua fidanzata si era sempre avvalsa delle ultime tendenze per uniformarsi e sentirsi parte di qualcosa. L’immagine, ben prima delle parole, dei progetti, della condivisione delle parole e dei progetti.

Se lo doveva quantomeno ammettere, dentro quella relazione si erano sentiti entrambi protetti, al sicuro, come parte della società esigeva, ma era solo un rifugio da ciò che realmente voleva e desiderava.

Quando non si piaceva allo specchio e si trovava ogni tipo di difetto, quando faticava a comprendersi o percepiva negli altri una forza che avrebbe voluto avere, c’era almeno quella certezza: anche io, Paolo, come tutti, ho una fidanzata.

Era entrato in quell’ingranaggio ben rodato di apparente normalità, esattamente come ci erano entrati tutti i suoi amici e i suoi genitori e prima ancora i suoi nonni <così fan tutti>

Lui non era mai stato un tipo da passioni forti, non se l’era mai concesso. Meglio procedere col freno a mano tirato. Erano da poco suonate le 7.15; chi l’aveva deciso che ci si dovesse alzare proprio a quell’ora per essere in ufficio entro le 8.30?

Abitudini, pensò Paolo, un altro passaggio che la società impone.

Dalla radiosveglia uscì un vecchio pezzo di Zucchero che lo fece trasalire: Il Volo. Paolo si ritrovò catapultato vent’anni addietro, nell’aula delle medie. La prof di italiano, passando tra i banchi, aveva visto di sfuggita qualche verso di un testo su cui lui stava lavorando da giorni e ne era rimasta colpita.

“Siamo caduti in volo, mio sole. Siamo caduti in volo, mio cielo…” aveva letto sottovoce, rivolgendogli uno sguardo ammirato.

˂Suona molto bene, Paolo, con poche parole hai saputo definire un’atmosfera. Posso leggerlo ai tuoi compagni? ˃.

Paolo, preso in contropiede, avrebbe voluto rispondere con un secco ‘no’, invece ne uscì un timido ˂˂˃˃.

I suoi compagni non avevano manifestato lo stesso entusiasmo, ma era stato bello ricevere quell’attestato di stima da un adulto, per giunta, che sapeva tante cose e apprezzava i veri poeti.

Rientrato a casa non ne aveva fatto parola con nessuno, si era come sempre un po’ difeso; quella profonda timidezza riusciva a spazzare via ogni impeto di entusiasmo, ma, soprattutto, perché non sarebbe fregato a nessuno, quindi meglio non verificarlo.

 

A vent’anni di distanza, Paolo aveva provato un moto di riconoscenza nei confronti della prof di italiano che, per una volta, aveva saputo cogliere la sua vena artistica, tanto che poi durante la ricreazione l’aveva richiamato alla cattedra chiedendogli ˂˂ti va di scrivere l’intero testo? Vorrei sottoporlo a un mio amico paroliere˃˃.

L’intero testo? Certo che gli andava. Aveva tante di quelle parole dentro la testa che, a giorni, vorticavano come dentro un frullatore. Nel giro di un giorno le portò il testo completo, non era stato difficile, le parole venivano da sole, bastava lasciarsi guidare dalle immagini che vedeva davanti a sé.

Ma poi quel meccanismo si inceppò e Paolo non seppe più nulla; non ebbe il coraggio di chiedere informazioni alla prof che sembrava essersene dimenticata.

Eppure, qualcosa doveva essere successo se, dopo parecchi anni, Paolo si era ritrovato quella sua strofa nella canzone di Zucchero. Semplice casualità? Pura coincidenza? O quello che in psicanalisi viene chiamato ‘sincronismo di pensiero’? Ma forse gli piaceva di più pensare che si fosse trattato di un misero plagio come ce n’erano sempre stati in ambiente musicale. Un grande autore di quella portata gli aveva rubato l’idea!

Si riguardò allo specchio e gli parve di vedere un’altra persona, un Paolo diverso da quello del giorno prima. Non si sentiva né meglio né peggio, non gli era ben chiaro quali sarebbero state le conseguenze di quel colpo di testa, ma almeno cominciava a sentire qualcosa: un tremolio leggero, una scossa tra la gola e il petto. Non gli accadeva da anni di sentirsi vivo. Di sentirsi Paolo.

Colore. Gli serviva un colore diverso per inaugurare la nuova stagione emotiva, basta con la gamma dei bianchi e dei celestini per il sopra e del nero e dei blu per il sotto. Poteva sottrarsi all’obbligo di indossare una divisa, e perché lo faceva? Già la solita regola non scritta, o forse si, policy aziendale

Avrebbe cominciato proprio da lì, dalla sua immagine. E anche dal colore.

Aprì l’anta dell’armadio, era un tripudio di tinte monotone, la tastiera di un pianoforte: bianco-nero, celestino-blu, che lo fece rabbrividire. Estrasse una camicia di un azzurro intenso che non ricordava nemmeno più di avere, forse era un regalo di Virginia. La indossò con un maglioncino verde, quell’insolito contrasto lo fece sorridere. Come lo avrebbero guardato i suoi colleghi? Quelli sembravano essere stati intinti in un secchio di grigio ardesia.

Si mise un profumo che non usava da anni, infilò un paio di jeans chiari, si riguardò allo specchio. Non si piaceva del tutto, ma qualcosa andava meglio.

˂Se non parte da me, da chi deve partire? ˃ pronunciò a voce alta, tentando di assumere un’espressione decisa e un tono credibile.

Devo darci un taglio, si disse, uscendo dalla sua camera e dirigendosi in cucina; respirò l’odore di cibo riscaldato, di cipolla rosolata, un’altra certezza nella sua vita. Pasta al forno. Melanzane alla parmigiana. Pollo allo spiedo e cipolle. Pizza e ancora pizza. ˂Hai voglia ingrassare! ˃.

Davanti al frigorifero gli balenò nella testa un’altra idea; più che un’idea, alcune immagini e nemmeno troppo sfuocate. Una tazza di latte di un bianco strano coi cereali, un bicchiere di spremuta, una tazza di macedonia, un piatto di riso con le zucchine, del pesce alla griglia con una fetta di limone sul bordo del piatto…

Non aveva per nulla fame; eppure, quelle pietanze gli sfilarono davanti agli occhi come le mail che, di lì a poco, avrebbe dovuto leggere. ˂Cazzo, che palle! Ma chi ci vuole andare in quell’ufficio di merda? ˃.

Da tempo, non sapeva nemmeno più da quanto, era precipitato nelle sabbie mobili dell’indolenza, una passiva accettazione aveva guidato gli ultimi anni della sua vita, forse tutta la sua vita. Scrutò dentro il frigorifero: niente latte di soia, niente arance o limoni, niente frutta. Solo delle gran schifezze. Poteva partire anche da lì, dal suo frigo, dal suo stomaco. Si impose che quella sera avrebbe buttato via snack e formaggi spalmabili, insaccati e intingoli vari che depistano le papille gustative.

Aveva ancora un po’ di tempo, si aggirò inquieto per l’appartamento. Tipica casa di single: una stanza, un bagno, un cucinotto, un soggiorno e una combinazione di stili che tenevano conto più della praticità che di un gusto estetico ben definito, ed ovviamente non erano i suoi. Molto di quello che ci aveva trovato al momento del suo arrivo, era rimasto.

Ma quegli spazi, ora che aveva compiuto la sua scelta inevitabile, gli sembravano diversi; più ariosi. Li guardò come se non li avesse mai guardati veramente, da un’angolazione diversa: i mobili composti dell’Ikea, rigorosamente bianchi, acquistati in fretta un pomeriggio piovoso, assemblati con la certezza che non sarebbero stati quelli definitivi. Si era ripetuto spesso che, non troppo in là, li avrebbe cambiati ma poi non lo aveva mai fatto.

Anche la carta da parati anni Settanta avrebbe voluto cambiare; a quelle fantasie geometriche, dai colori eccessivi, il suo occhio si era ormai assuefatto. Se li era ritrovati lì e aveva scelto di farceli restare; ad un’alternativa non aveva mai pensato, dal momento che richiedeva un gusto personale. Ma era tempio di cambiare pure quelli, sarebbe stato un gran lavoro, ma gli erano “spuntati i coglioni finalmente”

 

Basta con questa carta vecchia e sporca di fumo, quanti vi avevano fumato lì dentro? Lui di sicuro, e anche parecchio; quella che un tempo - prima del suo arrivo in quell’appartamento - era stata la cameretta dei bambini, era stata trasformata in una sorta di studio, di stanza del fumo, dello svago, del tempo libero.

Aveva avuto la sensazione che in tutta quella provvisorietà si sarebbe sentito a proprio agio, per nulla minacciato. Al momento poteva bastargli.

Quella mattina gli era sembrato di vedere molta più luce nella ‘stanza di rappresentanza’, gli piaceva chiamarla così, immaginando che un tempo non troppo lontano, la fosse stata: un luogo capace di accogliere una comitiva di gente morsa dalla tarantola della convivialità.

Lui, un tipo conviviale non lo era mai stato, tant’è che quella stanza aveva visto ben pochi amici, cene e risate. Ma c’era una cosa che Paolo aveva sempre fatto, con assiduità, si era preso cura del pavimento di marmo con una cera speciale che sapeva lucidarlo e proteggerlo dal tempo, adorava vedere la luce riflessa sul marmo lucido, gli trasferiva un senso di pace. Ora, era venuto tempo di consumarlo, quel marmo

 

Uscì di casa, infilò la chiave nella serratura, diede due mandate, non prese l’ascensore.

˂˂Oggi, scale˃˃.

Anche da qui posso cominciare: dalle scale. Possibile che avesse scelto di non scegliere? Di farsi trascinare anche da quell’ascensore?

˂˂E chi se ne frega della tranquillità˃˃ pronunciò a voce alta, disponendosi alla guida e mettendo in moto.

˂˂Io non voglio essere tranquillo e non voglio più essere una comparsa˃˃.






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