11/08/10

3) Invece









Non posso più essere la mia causa persa.

Non posso più aspettare che qualcosa avvenga, quanto tempo? Uno, due, tre anni?

Non posso più retrocedere, finirei in un baratro nero.

Non posso più permettermi di non avanzare, finirei nello stesso baratro nero.

Non posso essere il miglior sabotatore di me stesso.

Non posso più credere che l’amore sia subordinato al fatto di meritarlo.

E soprattutto non posso più accontentarmi di questa sospensione dalla vita.

Assente da sé stesso, ecco come si era sentito Paolo in tutti questi anni. Come se una coscienza slegata dalla sua lo avesse sempre spinto in un’altra direzione, facendogli fare cose che lui non avrebbe mai fatto se solo avesse avuto il coraggio della scelta.

Paolo era stato una comparsa marginale della sua esistenza, uno spettatore silenzioso.

Chi lo aveva mosso?

Chi era il suo burattinaio?

Dove risiedeva, dentro o fuori di lui?

Sarebbe mai stato in grado di prenderlo da parte e dirgli quello che gli andava detto, ovvero: senti bello, alla mia vita ci penso io! Tirati via dai coglioni! Sparisci una volta per tutte! Certo, era giunto il momento, non era più possibile accontentarsi delle briciole, confondere semplicità con ordinarietà, non sapeva più nemmeno cosa desiderare < ora basta!> Cos’era la vita senza desiderio?

Quell’inerzia lo aveva logorato scavando come l’acqua nella roccia, una goccia dopo l’altra. Per anni. Solo lui avrebbe potuto mettere fine a quel circuito malato e consolatorio che lo avviluppava come una seconda pelle. Ormai gli era tutto chiaro: non doveva più consolarsi, giustificarsi, perdonarsi. Non doveva più rimandare. Era stato un maestro nell’arte della procrastinazione: domani si adesso no. Poi, aveva capito, suo malgrado, che il momento migliore per fare le cose importanti, è subito. Non domani.

Quel “subito” era finalmente arrivato. Non c’era stato un giorno preciso in cui lo aveva capito con lucidità e se l’era detto a voce alta. Ma, sì, c’era stato un momento diverso da tutti gli altri in cui aveva sentito la spinta giusta per poterlo dire, quel basta! Cazzo ora basta! Forse era diventato più saggio a furia di farsi andare bene le cose, la saggezza arriva in punta di piedi, non fa tanto rumore. L’occasione propizia che gli si era presentata sarebbe stata vana senza quella saggezza che gli era cresciuta dentro.

La prima occasione, mettere fine alla storia con Virginia, poteva rappresentare l’inizio della riscossa. Ma non bastava. Da quel momento avrebbe dovuto riprendere in mano sé stesso, saldamente, senza raccontarsi più menzogne. C’era una ricetta per poterlo fare? Da chi avrebbe potuto imparare? Si era guardato indietro, non aveva avuto grandi maestri, punti di riferimento da cui lasciarsi ispirare. Li aveva cercati nei suoi cantautori, tra le strofe delle canzoni di Eros, di Baglioni e in qualche figura immaginaria che non trovava riscontro nella realtà.

In quante occasioni, da ragazzino, avrebbe voluto sentire un braccio forte a cui aggrapparsi, un consiglio giusto.    

“Dirsi la verità è la faccenda più complessa del mondo”, lo sapeva bene e per lui lo era sempre stato perché, poi, avrebbe dovuto fare il passo successivo: scegliere la direzione del cambiamento e perseguirlo.

Dalla sua famiglia d’origine aveva appreso l’arte dell’accontentarsi, ma non gli andava più bene. Forse i suoi bisogni erano troppi, si doveva far bastare quello che aveva? Ma, se non era felice, quello che aveva non bastava

Conosceva persone veramente felici?

C’era una ragazza che incontrava spesso lungo il percorso per il suo ufficio, gli era capitato di vederla ferma al semaforo, in attesa che scattasse il verde, sperando che il tempo si dilatasse, così da poterla ammirare a distanza.

Non si erano mai parlati, lei non lo aveva mai degnato di uno sguardo ma non era un problema, non gli andava di attuare una strategia di corteggiamento, aveva altro a cui pensare, ora. Certe fantasie, però, gli erano venute, eccome se gli erano venute! Con quei glutei sodi e scolpiti che s’intravedevano dai jeans rosa e attillati…

Jeans rosa era indubbiamente bella e accattivante, lo era senza saperlo. Non si atteggiava, non impiegava il corpo per ottenere consensi, come invece facevano tante donne.

Si muoveva con grazia come se planasse e dava l’impressione di essere leggera nel corpo e nei pensieri. Il suo esatto opposto. Quale poteva essere il suo segreto, sempre ne avesse uno?

Quando Paolo s’imbatteva in lei ne faceva il pieno per i giorni a venire. Ne respirava la grazia, quel senso di pace che traspariva dal volto, dalle movenze. Immancabilmente, poi, il suo sguardo finiva lì, sui glutei sodi e le gambe toniche che, certi giorni, metteva in risalto con un bel paio di tacchi sopra i quali si muoveva con spavalda eleganza.

Chissà se era fidanzata, a vederla doveva stare molto bene con lui. Fortunato chiunque fosse! E che lavoro faceva? Cosa facevano i suoi genitori? Jeans rosa sapeva smuoverlo come nessun altro, nel corpo e nella testa. Probabilmente proveniva da una famiglia moderna, di quelle che ti buttano subito nel mondo senza troppe raccomandazioni: esplora, cerca il tuo posto, se cadi ti rialzi.

Quella di Paolo era, invece, una classica famiglia lombarda piccolo borghese, dedita al lavoro, a mettere da parte qualcosina che “non si sa mai domani”. Un microcosmo fermo e prevedibile in cui si festeggiavano le ricorrenze, si onoravano i morti e non erano previsti progetti a lunga scadenza. Ci si affidava al Signore, quello sì. Ecco, anche la religione tra le mura domestiche era stata dispensata più come un dogma che non come una ricerca interiore.

Tutto si risolveva in superficie, seguendo un copione già scritto, si pregava Dio e qualche santo, si andava in chiesa la domenica con l’abito buono, ci si battezzava. Ogni tanto si ottemperava la confessione, “i peccati non devono restare troppo a lungo dentro di noi” diceva sua madre.

L’anima era vista come un quaderno per bambini, ogni pagina era un giorno, se commettevi qualche peccatuccio andavi da Don Michele che strappava quel foglio e con un segno della croce e un Padre Nostro, ti metteva davanti al naso quello successivo, tutto bianco e immacolato.

Il padre di Paolo lavorava in banca e ne andava fiero, si era sempre sentito un privilegiato a far parte di quel piccolo mondo protetto: la banca era un luogo saldo, inespugnabile, una specie di fortezza capace di ammortizzare i duri colpi della sorte. Aveva imparato anche lui ad accontentarsi del suo ruolo, una mansione secondaria difficile persino da schedare. Non che amasse pronunciare quella parola “passacarte” anche se lo era a tutti gli effetti e, tutti attorno a lui, lo chiamavano così. L’uomo tuttofare obbediente e servizievole che scatta alle richieste dei grandi capi.

Sua madre aveva lavorato in una industria tessile, fin da ragazzina; essendo di bella presenza aveva fatto la commessa nei negozi di abbigliamento nel centro di Milano, poi si era riciclata in lavori di manifattura in qualche fabbrica, giusto per sbarcare il lunario.

Avrei potuto accontentarmi ma è così che si diventa infelici, aveva ragione Bukowski.

Quell’aforisma letto da qualche parte gli calzava a pennello e se l’era scritto sulla prima pagina dell’agenda: gli serviva da monito.

˂˂Non basta provarci, ora devo anche riuscirci. Me lo devo˃˃. Nessuno avrebbe esaudito il miracolo al posto suo, solo lui lo avrebbe potuto far accadere. Si trattava di capire come.

Un’idea ce l’aveva. Era solo un inizio, un piccolo tassello del grande mosaico che avrebbe dovuto mettere insieme. Una partita a tennis prenotata per le 18 al solito campo con il maestro che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sul tennis.

Erano anni che non impugnava più una racchetta, anni che non faceva un po’ di movimento fisico, ma quello poteva rappresentare un inizio.

Faccio schifo, aveva pensato scrutandosi allo specchio con uno sguardo diverso dal solito, meno comprensivo e accondiscendente. Questa volta si era proprio guardato bene, in maniera chirurgica, occhi scrupolosi e inflessibili, occhi che non perdonano.

Si era soffermato sulla prominenza dell’addome, i pettorali inflacciditi dall’inerzia, la stessa che lo aveva guidato sull’orlo del baratro.

Senza esitare aveva preso il cellulare, digitato la sezione ‘rubrica’, rintracciato il numero di Enrico il maestro di tennis, inviato un vocale. Nel giro di pochi minuti aveva ricevuto una risposta.

Per troppe mattine nello specchio aveva visto un uomo ordinario, come gli capitava di vederne tanti in giro: in ufficio, al supermercato, in posta, all’uscita del cinema.

Nessun dettaglio particolare, solo l’anonima riproduzione di uno stesso modello.

Non voglio più essere ordinario. Non mi sento uguale a tutti gli altri.

Paolo aveva spento il pc, salutato frettolosamente i colleghi d’ufficio, senza travisare il benché minimo interesse nei loro occhi; probabilmente anche lui stava facendo la stessa fine e gli altri lo vedevano così: noioso, banale, uno senza arte né parte.

Eppure, da bambino aveva sognato di fare ben altro. Intanto, di scrivere canzoni, quelle che se le ascolti ad occhi chiusi, o mentre guidi in autostrada di notte, possono modificare il modo di guardare alla propria vita. Andava in fissa per le parole e la schiettezza con cui certi cantautori sapevano mettere in musica la vita vera, ricorrendo a immagini forti, strofe e ritornelli che ti si incollano dentro e diventano parte di te.

Poi, aveva pensato che quello sarebbe potuto restare solo un passatempo, un bellissimo passatempo; c’è chi colleziona stampe antiche, chi si immerge in alto mare con la bombola dell’ossigeno, e chi scrive canzoni. Aveva bisogno di un lavoro più sicuro nel quale potersi identificare appieno. Se c’era una materia da cui era sempre stato attratto, quella era la psicologia. Si vedeva in uno studio ben arredato, intento ad ascoltare i patemi dei suoi pazienti, inducendoli a mettere chiarezza nella giungla delle scelte sbagliate e delle recriminazioni. Cosa poteva esserci di più gratificante che l’aiutare gli altri a far pace col passato e a conferire un nuovo senso ad un’esistenza altrimenti vuota?

E, invece, era finito a fare l’impiegato per una multinazionale del settore tecnologico. Inseriva ogni giorno, per otto ore al giorno, dati sterili di cui non gli fregava niente, in un inerme, freddissimo pc.

Non c’era il benché minimo coinvolgimento emotivo in quello che faceva e tutto era sempre uguale al giorno prima, alla settimana prima, all’anno prima.

Gli orari d’ufficio, i colleghi e la loro espressione disillusa e quello che si dicevano, sempre gli stessi discorsi triti e ritriti da cui Paolo cercava di tenersi a debita distanza.

A fine mese aveva il suo stipendio sicuro, la malattia e le ferie pagate, la dodicesima e la tredicesima - si diceva certi giorni bui - prendendo a prestito il pensiero paterno: Di questi tempi… c’è gente che se lo sognerebbe un lavoro come il tuo.

E allora si convinceva che, in fondo, non era tutto così meschino, qualcuno stava peggio di lui, milioni di individui sulla faccia della Terra consumavano il loro tempo esattamente come lui faceva dentro quell’ufficio, digitando tasti, inserendo dati per lui inutili, inviando mail a emeriti sconosciuti. Non era un privilegiato ma nemmeno il più sfigato della Terra. Era solo uno dei tanti, ma adesso, diventare < uno tra tanti>

Anche quel giorno Paolo non desiderava altro che staccare la spina, l’attendevano una partita a tennis, la vecchia racchetta, le scarpette con le suole lise da una passione che si augurava di poter ritrovare. Lo aspettavano anche un paio di calzoncini in microfibra nuovi di zecca, il cartellino ancora attaccato; gli era mancato l’intraprendenza di provarli in quel negozio con la commessa carina che avrebbe sicuramente chiesto: “come vanno?” magari volendo appurare di persona. Ma ora la prova gli toccava: se non ci fosse entrato dentro? Dall’ultima partita aveva messo su almeno una decina di chili, tutti lì: impietosi, attorno al giro vita.  

Nello spogliatoio si era infilato nei calzoncini blu dopo aver strappato a forza il cartellino con le indicazioni per il lavaggio, ˂taglia azzeccata!˃ poi, nella maglietta extralarge. Si era allacciato una felpa in vita come un adolescente e aveva raggiunto il campo.

10/08/10

2) Il pugno nello stomaco

 

Virginia se ne stava lì, a fare qualcosa, infilata in un nuovo abito di chissà quale stilista. Lo guardava appena, gli parlava appena. Nulla di strano: era sempre così, ultimamente.

Peccato che quell’ultimamente durasse da troppo tempo. Era un amore finito il loro, un amore mai decollato. Qualcosa di intenso c’era stato, ma al momento Paolo non avrebbe saputo dire cosa fosse.

Attrazione fisica, all’inizio; poi anche quella si era spenta. Dialogo, condivisione, interessi comuni: solo qualche tentativo mal riuscito. Certe cose devono venire da sole, in maniera naturale, e, soprattutto, le si deve desiderare.

Non era solo colpa di Virginia, Paolo non se l’era mai sentita di accusarla, erano stati entrambi delle comparse in quella storia. Lei non se n’era andata per indolenza, per comodità. La loro relazione era diventata come un paio di comode pantofole che prendono la forma del piede.

Chiuso, spigoloso, fuggente, Paolo, si era subito stancato di cercare la complicità, la tenerezza e il dialogo. Anche se ne sentiva bisogno non aveva mai avuto l’intraprendenza di accendere i motori e di mettersi in viaggio.

Così erano trascorsi tre anni nella più assoluta banalità sentimentale. Routine, anche loro ci erano finiti stritolati dentro. Sì, perché da fuori il loro appariva uno di quei rapporti che funziona, seppur senza slanci o particolari intemperanze.

Lui, la era una persona normale, come se ne trovano tante in giro, anche ordinaria e prevedibile. É così che lo vedevano gli altri, ma in realtà un tipo anticonvenzionale, a dirla tutta, per via di quella propensione a vomitare sempre fuori quello che pensava fottendosene delle conseguenze, anche controproducenti, spesso.

 

A Virginia non piaceva affatto quando il suo fidanzato si comportava così, innalzando muri o abbattendoli del tutto; lei era un avvocato, conosceva le leggi e le applicava anche nei sentimenti. Amava la diplomazia, le frasi a pennello, i giusti equilibri. E dipendeva dalla forma, dai comportamenti appropriati, dalle parole giuste dette al momento giusto; per quelle sbagliate lei non aveva mai tempo.

Virginia, beh, se non altro lei possedeva la bellezza a interrompere la monotonia dell’ordinarietà; ma per il resto, la era a 360 gradi: una ragazza ordinaria e prevedibile, senza particolari aspirazioni emotive

Paolo, quella sera, era arrivato con un discreto ritardo. Lo aveva fatto apposta? Non lo sapeva nemmeno lui. Si era mosso lentamente, come un bradipo.

La verità è che non aveva per nulla voglia di vederla, sapeva già cosa si sarebbero detti, cosa non si sarebbero detti (questo era il punto), il vuoto che lui avrebbe sentito. Un vuoto che lo accompagnava da sempre ma che, ultimamente, in sua presenza, si amplificava fino a togliergli il respiro. Possibile che in quel rapporto non avessero saputo far altro che tirar fuori i loro difetti, la parte più cupa, le macchie di umidità? Tutti i difetti di Paolo, uno in fila all’altro: il suo brutto carattere, l’assenteismo latente, la totale mancanza di leggerezza. E quelli di Virginia che erano indubbiamente più misurati, perché lei era fatta così, nella vita procedeva con prudenza misurando parole e gesti, facendo il possibile per non tradire le aspettative degli altri.

Ma qual era la vera Virginia? Cosa sognava veramente? Lui ormai non lo sapeva più. E dove era finito Paolo? C’era mai stato per lei? Perché si era fatta bastare quel poco che lui le aveva concesso senza pretendere altro?

Ma Paolo sapeva perfettamente cosa avrebbe fatto Virginia dicendogli quel basta.

Quando erano insieme si teneva sempre occupata con qualcosa: un oggetto qualunque, un pensiero qualunque, una scusa. C’era a metà come un vaso rotto, ma lui non aveva mai capito dove se ne andasse l’altra Virginia, cosa avesse di tanto urgente da dover sbrigare.

Paolo sapeva perfettamente anche come lo avrebbe guardato senza vederlo più, spostando lo sguardo dal colletto della sua camicia, ai polsini. Nemmeno lui la vedeva più, era diventata una figura scontornata con dei gran riccioli sopra la testa, una voce monocorde e un buon profumo. Ecco, il profumo gli piaceva ancora e sapeva smuovergli qualche emozione. Per il resto, calma piatta.

Nessuno tra i suoi amici avrebbe approvato la sua scelta ma lui ormai era deciso: non vedeva alternative. Erano anni che attendeva di poter raggiungere quel bivio in cui ora sentiva di essere approdato. Due sole opzioni: o di qua o di là. Più nessuna via di mezzo. 

Virginia andò ad aprire la porta, lo salutò frettolosamente, non gli chiese nemmeno il motivo del suo ritardo. Paolo, vedendola sfumare lungo il corridoio, sentì una morsa all’altezza dello stomaco come se qualcuno gli avesse tirato un pugno. Ne fu sorpreso. Ma cosa gli stava accadendo?

Quante volte aveva vissuto dentro la stessa scena - almeno cinquanta, cento volte, in tre anni - eppure quel pugno non gli era mai arrivato.

Virginia si mise a sedere sul divano e riprese l’occupazione che aveva appena interrotto ˂˂dammi dieci minuti e usciamo˃˃.

˂˂Non mi va di uscire˃˃ gli aveva detto restando in piedi.

˂˂Come non ti va? Ci stanno aspettando, glielo dici tu a Micaela e Alberto?˃˃

˂˂Non ho nessun problema, basta una telefonata˃˃

˂˂Sì, e una scusa˃˃

˂˂Nessunissima scusa, non mi va e basta. Ti devo parlare˃˃. Non si mise a sedere, si sentiva meglio così, provvisorio.

˂˂Proprio adesso?˃˃

˂˂Sì, proprio adesso˃˃

˂˂Non vedi che sono occupata?˃˃

˂˂Stai infilando un cinturino ai tuoi sandali nuovi˃˃

˂˂Mi vuoi aiutare?˃˃

˂˂No, ti devo parlare˃˃

˂˂E allora parla, ti ascolto, ma io come vedi ho da fare˃˃. Non accennò minimamente a interrompere la sua occupazione.

˂˂Mi piacerebbe se per un attimo mi guardassi in faccia˃˃

˂˂Chissà che roba mi devi dire!˃˃

˂˂Poi lo deciderai tu se è importante o no˃˃.

Virginia lanciò il sandalo sul divano e gli puntò gli occhi addosso. Castani, belli, ma lui quella bellezza non riusciva più a scorgerla, se non formalmente. Era oggettivamente una bella donna ma stava diventando ogni giorno più inconsistente.

˂˂Credo che da questa sera non ci vedremo più˃˃.

Poi restò in silenzio per tastare la sua reazione, anche Virginia non disse nulla. Era stato molto più facile di quello che si era immaginato. Un senso di troppa pienezza, di nausea, aveva fatto tutto al posto suo, come quando si mangia per abitudine senza sentire né la fame né il sapore del cibo, e si arriva poi a non poter ingoiare nemmeno più una briciola.

˂˂E perché? Ti trasferisci?˃˃

˂˂No, resto qui, ma noi non ci vedremo più, Virginia˃˃

 ˂˂Boh, io non ti capisco˃˃ riprese in mano il sandalo, le serviva per non guardarlo.

˂˂Come non mi capisci?˃˃

˂˂No, non ti capisco, e non è la prima volta, se proprio lo vuoi sapere˃˃.

˂˂Lo so che non è la prima volta, il punto è proprio questo: tu non mi capisci e io non capisco te. Per questo è giusto che ognuno vada per la propria strada˃˃.

˂˂Ah sì, e la tua quale sarebbe?˃˃

˂˂Ancora non lo so, ma devo ricominciare da solo˃˃

˂˂Da solo?˃˃

˂˂Sì, da solo˃˃

˂˂Ma se tu da solo non sai fare niente˃˃.

1)Sentirsi Paolo




L’inizio è sempre il momento migliore, si è conquistati da una gran voglia di fare, un’euforia che potrebbe dissolversi in un lampo. Ma Paolo questa volta ci credeva, doveva restare ancorato alla sua convinzione.

Peccato solo che quell’inizio, il suo inizio, fosse coinciso con una fine inevitabile.

L’iniziativa, finalmente, era partita da lui. Per una volta si era messo prima degli altri, prima della paura di fallire e ritrovarsi ancora solo.

La verità è che si era sempre sentito solo. Quella, la solitudine, era una delle sue poche certezze, il leitmotiv degli anni trascorsi. Talvolta l’aveva anche inseguita e difesa ma, il più delle volte, subita. 

Anche con la sua fidanzata era stato così. Si erano conosciuti alla scuola media, tra i banchi di legno smaltato, gli intervalli che sapevano di merendine al cioccolato e succhi di frutta. Lei era stata la sua prima cotta. Virginia era carina, aveva tutto quello che immaginava dovesse avere una fidanzatina. Non l’avrebbe voluta cambiare con un’altra.

La loro era stata una storiella adolescenziale senza strascichi, non aveva fatto soffrire nessuno. Nessun cuore spezzato. Paolo non aveva rimpianto quel primo amore, come probabilmente, non l’aveva rimpianto lei. Ma poi, circa dieci anni dopo, si erano rivisti attraverso amici in comune. Una cena, due parole, uno scambio di sguardi: il momento giusto per entrambi.

Per alcuni anni, si erano voluti bene, sopportati più che supportati. Poi, era subentrata la routine, le incertezze che a furia di essere ignorate erano diventate presenze certe. Inevitabilmente, il punto di rottura era arrivato.

Ora il suo pensiero correva alla discussione avvenuta la sera prima con Virginia. Quasi le nove. Soggiorno di Virginia. Capelli ricci e scuri di Virginia. Sandali di Virginia: il cinturino tra le mani, da allargare o stringere? Nemmeno ricorda com’era vestita, la sua fidanzata si era sempre avvalsa delle ultime tendenze per uniformarsi e sentirsi parte di qualcosa. L’immagine, ben prima delle parole, dei progetti, della condivisione delle parole e dei progetti.

Se lo doveva quantomeno ammettere, dentro quella relazione si erano sentiti entrambi protetti, al sicuro, come parte della società esigeva, ma era solo un rifugio da ciò che realmente voleva e desiderava.

Quando non si piaceva allo specchio e si trovava ogni tipo di difetto, quando faticava a comprendersi o percepiva negli altri una forza che avrebbe voluto avere, c’era almeno quella certezza: anche io, Paolo, come tutti, ho una fidanzata.

Era entrato in quell’ingranaggio ben rodato di apparente normalità, esattamente come ci erano entrati tutti i suoi amici e i suoi genitori e prima ancora i suoi nonni <così fan tutti>

Lui non era mai stato un tipo da passioni forti, non se l’era mai concesso. Meglio procedere col freno a mano tirato. Erano da poco suonate le 7.15; chi l’aveva deciso che ci si dovesse alzare proprio a quell’ora per essere in ufficio entro le 8.30?

Abitudini, pensò Paolo, un altro passaggio che la società impone.

Dalla radiosveglia uscì un vecchio pezzo di Zucchero che lo fece trasalire: Il Volo. Paolo si ritrovò catapultato vent’anni addietro, nell’aula delle medie. La prof di italiano, passando tra i banchi, aveva visto di sfuggita qualche verso di un testo su cui lui stava lavorando da giorni e ne era rimasta colpita.

“Siamo caduti in volo, mio sole. Siamo caduti in volo, mio cielo…” aveva letto sottovoce, rivolgendogli uno sguardo ammirato.

˂Suona molto bene, Paolo, con poche parole hai saputo definire un’atmosfera. Posso leggerlo ai tuoi compagni? ˃.

Paolo, preso in contropiede, avrebbe voluto rispondere con un secco ‘no’, invece ne uscì un timido ˂˂˃˃.

I suoi compagni non avevano manifestato lo stesso entusiasmo, ma era stato bello ricevere quell’attestato di stima da un adulto, per giunta, che sapeva tante cose e apprezzava i veri poeti.

Rientrato a casa non ne aveva fatto parola con nessuno, si era come sempre un po’ difeso; quella profonda timidezza riusciva a spazzare via ogni impeto di entusiasmo, ma, soprattutto, perché non sarebbe fregato a nessuno, quindi meglio non verificarlo.

 

A vent’anni di distanza, Paolo aveva provato un moto di riconoscenza nei confronti della prof di italiano che, per una volta, aveva saputo cogliere la sua vena artistica, tanto che poi durante la ricreazione l’aveva richiamato alla cattedra chiedendogli ˂˂ti va di scrivere l’intero testo? Vorrei sottoporlo a un mio amico paroliere˃˃.

L’intero testo? Certo che gli andava. Aveva tante di quelle parole dentro la testa che, a giorni, vorticavano come dentro un frullatore. Nel giro di un giorno le portò il testo completo, non era stato difficile, le parole venivano da sole, bastava lasciarsi guidare dalle immagini che vedeva davanti a sé.

Ma poi quel meccanismo si inceppò e Paolo non seppe più nulla; non ebbe il coraggio di chiedere informazioni alla prof che sembrava essersene dimenticata.

Eppure, qualcosa doveva essere successo se, dopo parecchi anni, Paolo si era ritrovato quella sua strofa nella canzone di Zucchero. Semplice casualità? Pura coincidenza? O quello che in psicanalisi viene chiamato ‘sincronismo di pensiero’? Ma forse gli piaceva di più pensare che si fosse trattato di un misero plagio come ce n’erano sempre stati in ambiente musicale. Un grande autore di quella portata gli aveva rubato l’idea!

Si riguardò allo specchio e gli parve di vedere un’altra persona, un Paolo diverso da quello del giorno prima. Non si sentiva né meglio né peggio, non gli era ben chiaro quali sarebbero state le conseguenze di quel colpo di testa, ma almeno cominciava a sentire qualcosa: un tremolio leggero, una scossa tra la gola e il petto. Non gli accadeva da anni di sentirsi vivo. Di sentirsi Paolo.

Colore. Gli serviva un colore diverso per inaugurare la nuova stagione emotiva, basta con la gamma dei bianchi e dei celestini per il sopra e del nero e dei blu per il sotto. Poteva sottrarsi all’obbligo di indossare una divisa, e perché lo faceva? Già la solita regola non scritta, o forse si, policy aziendale

Avrebbe cominciato proprio da lì, dalla sua immagine. E anche dal colore.

Aprì l’anta dell’armadio, era un tripudio di tinte monotone, la tastiera di un pianoforte: bianco-nero, celestino-blu, che lo fece rabbrividire. Estrasse una camicia di un azzurro intenso che non ricordava nemmeno più di avere, forse era un regalo di Virginia. La indossò con un maglioncino verde, quell’insolito contrasto lo fece sorridere. Come lo avrebbero guardato i suoi colleghi? Quelli sembravano essere stati intinti in un secchio di grigio ardesia.

Si mise un profumo che non usava da anni, infilò un paio di jeans chiari, si riguardò allo specchio. Non si piaceva del tutto, ma qualcosa andava meglio.

˂Se non parte da me, da chi deve partire? ˃ pronunciò a voce alta, tentando di assumere un’espressione decisa e un tono credibile.

Devo darci un taglio, si disse, uscendo dalla sua camera e dirigendosi in cucina; respirò l’odore di cibo riscaldato, di cipolla rosolata, un’altra certezza nella sua vita. Pasta al forno. Melanzane alla parmigiana. Pollo allo spiedo e cipolle. Pizza e ancora pizza. ˂Hai voglia ingrassare! ˃.

Davanti al frigorifero gli balenò nella testa un’altra idea; più che un’idea, alcune immagini e nemmeno troppo sfuocate. Una tazza di latte di un bianco strano coi cereali, un bicchiere di spremuta, una tazza di macedonia, un piatto di riso con le zucchine, del pesce alla griglia con una fetta di limone sul bordo del piatto…

Non aveva per nulla fame; eppure, quelle pietanze gli sfilarono davanti agli occhi come le mail che, di lì a poco, avrebbe dovuto leggere. ˂Cazzo, che palle! Ma chi ci vuole andare in quell’ufficio di merda? ˃.

Da tempo, non sapeva nemmeno più da quanto, era precipitato nelle sabbie mobili dell’indolenza, una passiva accettazione aveva guidato gli ultimi anni della sua vita, forse tutta la sua vita. Scrutò dentro il frigorifero: niente latte di soia, niente arance o limoni, niente frutta. Solo delle gran schifezze. Poteva partire anche da lì, dal suo frigo, dal suo stomaco. Si impose che quella sera avrebbe buttato via snack e formaggi spalmabili, insaccati e intingoli vari che depistano le papille gustative.

Aveva ancora un po’ di tempo, si aggirò inquieto per l’appartamento. Tipica casa di single: una stanza, un bagno, un cucinotto, un soggiorno e una combinazione di stili che tenevano conto più della praticità che di un gusto estetico ben definito, ed ovviamente non erano i suoi. Molto di quello che ci aveva trovato al momento del suo arrivo, era rimasto.

Ma quegli spazi, ora che aveva compiuto la sua scelta inevitabile, gli sembravano diversi; più ariosi. Li guardò come se non li avesse mai guardati veramente, da un’angolazione diversa: i mobili composti dell’Ikea, rigorosamente bianchi, acquistati in fretta un pomeriggio piovoso, assemblati con la certezza che non sarebbero stati quelli definitivi. Si era ripetuto spesso che, non troppo in là, li avrebbe cambiati ma poi non lo aveva mai fatto.

Anche la carta da parati anni Settanta avrebbe voluto cambiare; a quelle fantasie geometriche, dai colori eccessivi, il suo occhio si era ormai assuefatto. Se li era ritrovati lì e aveva scelto di farceli restare; ad un’alternativa non aveva mai pensato, dal momento che richiedeva un gusto personale. Ma era tempio di cambiare pure quelli, sarebbe stato un gran lavoro, ma gli erano “spuntati i coglioni finalmente”

 

Basta con questa carta vecchia e sporca di fumo, quanti vi avevano fumato lì dentro? Lui di sicuro, e anche parecchio; quella che un tempo - prima del suo arrivo in quell’appartamento - era stata la cameretta dei bambini, era stata trasformata in una sorta di studio, di stanza del fumo, dello svago, del tempo libero.

Aveva avuto la sensazione che in tutta quella provvisorietà si sarebbe sentito a proprio agio, per nulla minacciato. Al momento poteva bastargli.

Quella mattina gli era sembrato di vedere molta più luce nella ‘stanza di rappresentanza’, gli piaceva chiamarla così, immaginando che un tempo non troppo lontano, la fosse stata: un luogo capace di accogliere una comitiva di gente morsa dalla tarantola della convivialità.

Lui, un tipo conviviale non lo era mai stato, tant’è che quella stanza aveva visto ben pochi amici, cene e risate. Ma c’era una cosa che Paolo aveva sempre fatto, con assiduità, si era preso cura del pavimento di marmo con una cera speciale che sapeva lucidarlo e proteggerlo dal tempo, adorava vedere la luce riflessa sul marmo lucido, gli trasferiva un senso di pace. Ora, era venuto tempo di consumarlo, quel marmo

 

Uscì di casa, infilò la chiave nella serratura, diede due mandate, non prese l’ascensore.

˂˂Oggi, scale˃˃.

Anche da qui posso cominciare: dalle scale. Possibile che avesse scelto di non scegliere? Di farsi trascinare anche da quell’ascensore?

˂˂E chi se ne frega della tranquillità˃˃ pronunciò a voce alta, disponendosi alla guida e mettendo in moto.

˂˂Io non voglio essere tranquillo e non voglio più essere una comparsa˃˃.