Non posso più essere la mia causa persa.
Non posso
più aspettare che qualcosa avvenga, quanto tempo? Uno, due, tre anni?
Non posso
più retrocedere, finirei in un baratro nero.
Non posso
più permettermi di non avanzare, finirei nello stesso baratro nero.
Non posso
essere il miglior sabotatore di me stesso.
Non posso
più credere che l’amore sia subordinato al fatto di meritarlo.
E
soprattutto non posso più accontentarmi di questa sospensione dalla vita.
Assente da sé stesso, ecco come si era sentito Paolo in tutti questi anni. Come se una
coscienza slegata dalla sua lo avesse sempre spinto in un’altra direzione,
facendogli fare cose che lui non avrebbe mai fatto se solo avesse avuto il
coraggio della scelta.
Paolo era
stato una comparsa marginale della sua esistenza, uno spettatore silenzioso.
Chi lo
aveva mosso?
Chi era
il suo burattinaio?
Dove
risiedeva, dentro o fuori di lui?
Sarebbe
mai stato in grado di prenderlo da parte e dirgli quello che gli andava detto,
ovvero: senti bello, alla mia vita ci penso io! Tirati via dai coglioni!
Sparisci una volta per tutte! Certo, era giunto il momento, non era più
possibile accontentarsi delle briciole, confondere semplicità con ordinarietà,
non sapeva più nemmeno cosa desiderare < ora basta!> Cos’era la vita senza desiderio?
Quell’inerzia
lo aveva logorato scavando come l’acqua nella roccia, una goccia dopo l’altra.
Per anni. Solo lui avrebbe potuto mettere fine a quel circuito malato e
consolatorio che lo avviluppava come una seconda pelle. Ormai gli era tutto
chiaro: non doveva più consolarsi, giustificarsi, perdonarsi. Non doveva più
rimandare. Era stato un maestro nell’arte della procrastinazione: domani si
adesso no. Poi, aveva capito, suo malgrado, che il momento migliore per fare le
cose importanti, è subito. Non domani.
Quel
“subito” era finalmente arrivato. Non c’era stato un giorno preciso in cui lo
aveva capito con lucidità e se l’era detto a voce alta. Ma, sì, c’era stato un
momento diverso da tutti gli altri in cui aveva sentito la spinta giusta per
poterlo dire, quel basta! Cazzo ora
basta! Forse era diventato più saggio a furia di farsi andare bene le cose,
la saggezza arriva in punta di piedi, non fa tanto rumore. L’occasione propizia
che gli si era presentata sarebbe stata vana senza quella saggezza che gli era
cresciuta dentro.
La prima
occasione, mettere fine alla storia con Virginia, poteva rappresentare l’inizio
della riscossa. Ma non bastava. Da quel momento avrebbe dovuto riprendere in
mano sé stesso, saldamente, senza raccontarsi più menzogne. C’era una ricetta
per poterlo fare? Da chi avrebbe potuto imparare? Si era guardato indietro, non
aveva avuto grandi maestri, punti di riferimento da cui lasciarsi ispirare. Li
aveva cercati nei suoi cantautori, tra le strofe delle canzoni di Eros, di
Baglioni e in qualche figura immaginaria che non trovava riscontro nella
realtà.
In quante
occasioni, da ragazzino, avrebbe voluto sentire un braccio forte a cui
aggrapparsi, un consiglio giusto.
“Dirsi la
verità è la faccenda più complessa del mondo”, lo sapeva bene e per lui lo era
sempre stato perché, poi, avrebbe dovuto fare il passo successivo: scegliere la
direzione del cambiamento e perseguirlo.
Dalla sua
famiglia d’origine aveva appreso l’arte dell’accontentarsi, ma non gli andava
più bene. Forse i suoi bisogni erano troppi, si doveva far bastare quello che
aveva? Ma, se non era felice, quello che aveva non bastava
Conosceva
persone veramente felici?
C’era una
ragazza che incontrava spesso lungo il percorso per il suo ufficio, gli era
capitato di vederla ferma al semaforo, in attesa che scattasse il verde,
sperando che il tempo si dilatasse, così da poterla ammirare a distanza.
Non si
erano mai parlati, lei non lo aveva mai degnato di uno sguardo ma non era un
problema, non gli andava di attuare una strategia di corteggiamento, aveva
altro a cui pensare, ora. Certe fantasie, però, gli erano venute, eccome se gli
erano venute! Con quei glutei sodi e scolpiti che s’intravedevano dai jeans
rosa e attillati…
Jeans rosa era indubbiamente bella e accattivante, lo era senza
saperlo. Non si atteggiava, non impiegava il corpo per ottenere consensi, come
invece facevano tante donne.
Si muoveva
con grazia come se planasse e dava l’impressione di essere leggera nel corpo e
nei pensieri. Il suo esatto opposto. Quale poteva essere il suo segreto, sempre
ne avesse uno?
Quando
Paolo s’imbatteva in lei ne faceva il pieno per i giorni a venire. Ne respirava
la grazia, quel senso di pace che traspariva dal volto, dalle movenze. Immancabilmente,
poi, il suo sguardo finiva lì, sui glutei sodi e le gambe toniche che, certi
giorni, metteva in risalto con un bel paio di tacchi sopra i quali si muoveva
con spavalda eleganza.
Chissà se
era fidanzata, a vederla doveva stare molto bene con lui. Fortunato chiunque
fosse! E che lavoro faceva? Cosa facevano i suoi genitori? Jeans rosa sapeva smuoverlo come nessun altro, nel corpo e nella
testa. Probabilmente proveniva da una famiglia moderna, di quelle che ti
buttano subito nel mondo senza troppe raccomandazioni: esplora, cerca il tuo
posto, se cadi ti rialzi.
Quella di
Paolo era, invece, una classica famiglia lombarda piccolo borghese, dedita al
lavoro, a mettere da parte qualcosina che “non si sa mai domani”. Un microcosmo
fermo e prevedibile in cui si festeggiavano le ricorrenze, si onoravano i morti
e non erano previsti progetti a lunga scadenza. Ci si affidava al Signore,
quello sì. Ecco, anche la religione tra le mura domestiche era stata dispensata
più come un dogma che non come una ricerca interiore.
Tutto si
risolveva in superficie, seguendo un copione già scritto, si pregava Dio e
qualche santo, si andava in chiesa la domenica con l’abito buono, ci si battezzava.
Ogni tanto si ottemperava la confessione, “i peccati non devono restare troppo
a lungo dentro di noi” diceva sua madre.
L’anima
era vista come un quaderno per bambini, ogni pagina era un giorno, se
commettevi qualche peccatuccio andavi da Don Michele che strappava quel foglio
e con un segno della croce e un Padre Nostro, ti metteva davanti al naso quello
successivo, tutto bianco e immacolato.
Il padre
di Paolo lavorava in banca e ne andava fiero, si era sempre sentito un
privilegiato a far parte di quel piccolo mondo protetto: la banca era un luogo
saldo, inespugnabile, una specie di fortezza capace di ammortizzare i duri colpi
della sorte. Aveva imparato anche lui ad accontentarsi del suo ruolo, una
mansione secondaria difficile persino da schedare. Non che amasse pronunciare
quella parola “passacarte” anche se lo era a tutti gli effetti e, tutti attorno
a lui, lo chiamavano così. L’uomo tuttofare obbediente e servizievole che scatta
alle richieste dei grandi capi.
Sua madre
aveva lavorato in una industria tessile, fin da ragazzina; essendo di bella
presenza aveva fatto la commessa nei negozi di abbigliamento nel centro di
Milano, poi si era riciclata in lavori di manifattura in qualche fabbrica,
giusto per sbarcare il lunario.
Avrei potuto
accontentarmi ma è così che si diventa infelici, aveva ragione Bukowski.
Quell’aforisma
letto da qualche parte gli calzava a pennello e se l’era scritto sulla prima
pagina dell’agenda: gli serviva da monito.
˂˂Non basta provarci, ora devo anche riuscirci. Me lo
devo˃˃.
Nessuno avrebbe esaudito il miracolo al
posto suo, solo lui lo avrebbe potuto far accadere. Si trattava di capire come.
Un’idea
ce l’aveva. Era solo un inizio, un piccolo tassello del grande mosaico che
avrebbe dovuto mettere insieme. Una partita a tennis prenotata per le 18 al
solito campo con il maestro che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sul
tennis.
Erano
anni che non impugnava più una racchetta, anni che non faceva un po’ di
movimento fisico, ma quello poteva rappresentare un inizio.
Faccio schifo,
aveva pensato scrutandosi allo specchio con uno sguardo diverso dal solito,
meno comprensivo e accondiscendente. Questa volta si era proprio guardato bene,
in maniera chirurgica, occhi scrupolosi e inflessibili, occhi che non
perdonano.
Si era
soffermato sulla prominenza dell’addome, i pettorali inflacciditi dall’inerzia,
la stessa che lo aveva guidato sull’orlo del baratro.
Senza
esitare aveva preso il cellulare, digitato la sezione ‘rubrica’, rintracciato
il numero di Enrico il maestro di tennis, inviato un vocale. Nel giro di pochi
minuti aveva ricevuto una risposta.
Per
troppe mattine nello specchio aveva visto un uomo ordinario, come gli capitava
di vederne tanti in giro: in ufficio, al supermercato, in posta, all’uscita del
cinema.
Nessun
dettaglio particolare, solo l’anonima riproduzione di uno stesso modello.
Non voglio più essere ordinario. Non mi sento uguale a
tutti gli altri.
Paolo
aveva spento il pc, salutato frettolosamente i colleghi d’ufficio, senza
travisare il benché minimo interesse nei loro occhi; probabilmente anche lui
stava facendo la stessa fine e gli altri lo vedevano così: noioso, banale, uno
senza arte né parte.
Eppure,
da bambino aveva sognato di fare ben altro. Intanto, di scrivere canzoni,
quelle che se le ascolti ad occhi chiusi, o mentre guidi in autostrada di
notte, possono modificare il modo di guardare alla propria vita. Andava in
fissa per le parole e la schiettezza con cui certi cantautori sapevano mettere
in musica la vita vera, ricorrendo a immagini forti, strofe e ritornelli che ti
si incollano dentro e diventano parte di te.
Poi,
aveva pensato che quello sarebbe potuto restare solo un passatempo, un
bellissimo passatempo; c’è chi colleziona stampe antiche, chi si immerge in
alto mare con la bombola dell’ossigeno, e chi scrive canzoni. Aveva bisogno di
un lavoro più sicuro nel quale potersi identificare appieno. Se c’era una
materia da cui era sempre stato attratto, quella era la psicologia. Si vedeva
in uno studio ben arredato, intento ad ascoltare i patemi dei suoi pazienti,
inducendoli a mettere chiarezza nella giungla delle scelte sbagliate e delle
recriminazioni. Cosa poteva esserci di più gratificante che l’aiutare gli altri
a far pace col passato e a conferire un nuovo senso ad un’esistenza altrimenti vuota?
E,
invece, era finito a fare l’impiegato per una multinazionale del settore
tecnologico. Inseriva ogni giorno, per otto ore al giorno, dati sterili di cui
non gli fregava niente, in un inerme, freddissimo pc.
Non c’era
il benché minimo coinvolgimento emotivo in quello che faceva e tutto era sempre
uguale al giorno prima, alla settimana prima, all’anno prima.
Gli orari
d’ufficio, i colleghi e la loro espressione disillusa e quello che si dicevano,
sempre gli stessi discorsi triti e ritriti da cui Paolo cercava di tenersi a
debita distanza.
A fine
mese aveva il suo stipendio sicuro, la malattia e le ferie pagate, la
dodicesima e la tredicesima - si diceva certi giorni bui - prendendo a prestito
il pensiero paterno: Di questi tempi… c’è gente che se lo sognerebbe un
lavoro come il tuo.
E allora
si convinceva che, in fondo, non era tutto così meschino, qualcuno stava peggio
di lui, milioni di individui sulla faccia della Terra consumavano il loro tempo
esattamente come lui faceva dentro quell’ufficio, digitando tasti, inserendo
dati per lui inutili, inviando mail a emeriti sconosciuti. Non era un
privilegiato ma nemmeno il più sfigato della Terra. Era solo uno dei tanti, ma
adesso, diventare < uno tra tanti>
Anche
quel giorno Paolo non desiderava altro che staccare la spina, l’attendevano una
partita a tennis, la vecchia racchetta, le scarpette con le suole lise da una
passione che si augurava di poter ritrovare. Lo aspettavano anche un paio di
calzoncini in microfibra nuovi di zecca, il cartellino ancora attaccato; gli
era mancato l’intraprendenza di provarli in quel negozio con la commessa carina
che avrebbe sicuramente chiesto: “come vanno?” magari volendo appurare di
persona. Ma ora la prova gli toccava: se non ci fosse entrato dentro? Dall’ultima
partita aveva messo su almeno una decina di chili, tutti lì: impietosi, attorno
al giro vita.
Nello
spogliatoio si era infilato nei calzoncini blu dopo aver strappato a forza il
cartellino con le indicazioni per il lavaggio, ˂taglia azzeccata!˃ poi, nella maglietta extralarge. Si era allacciato
una felpa in vita come un adolescente e aveva raggiunto il campo.
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