11/08/10

3) Invece









Non posso più essere la mia causa persa.

Non posso più aspettare che qualcosa avvenga, quanto tempo? Uno, due, tre anni?

Non posso più retrocedere, finirei in un baratro nero.

Non posso più permettermi di non avanzare, finirei nello stesso baratro nero.

Non posso essere il miglior sabotatore di me stesso.

Non posso più credere che l’amore sia subordinato al fatto di meritarlo.

E soprattutto non posso più accontentarmi di questa sospensione dalla vita.

Assente da sé stesso, ecco come si era sentito Paolo in tutti questi anni. Come se una coscienza slegata dalla sua lo avesse sempre spinto in un’altra direzione, facendogli fare cose che lui non avrebbe mai fatto se solo avesse avuto il coraggio della scelta.

Paolo era stato una comparsa marginale della sua esistenza, uno spettatore silenzioso.

Chi lo aveva mosso?

Chi era il suo burattinaio?

Dove risiedeva, dentro o fuori di lui?

Sarebbe mai stato in grado di prenderlo da parte e dirgli quello che gli andava detto, ovvero: senti bello, alla mia vita ci penso io! Tirati via dai coglioni! Sparisci una volta per tutte! Certo, era giunto il momento, non era più possibile accontentarsi delle briciole, confondere semplicità con ordinarietà, non sapeva più nemmeno cosa desiderare < ora basta!> Cos’era la vita senza desiderio?

Quell’inerzia lo aveva logorato scavando come l’acqua nella roccia, una goccia dopo l’altra. Per anni. Solo lui avrebbe potuto mettere fine a quel circuito malato e consolatorio che lo avviluppava come una seconda pelle. Ormai gli era tutto chiaro: non doveva più consolarsi, giustificarsi, perdonarsi. Non doveva più rimandare. Era stato un maestro nell’arte della procrastinazione: domani si adesso no. Poi, aveva capito, suo malgrado, che il momento migliore per fare le cose importanti, è subito. Non domani.

Quel “subito” era finalmente arrivato. Non c’era stato un giorno preciso in cui lo aveva capito con lucidità e se l’era detto a voce alta. Ma, sì, c’era stato un momento diverso da tutti gli altri in cui aveva sentito la spinta giusta per poterlo dire, quel basta! Cazzo ora basta! Forse era diventato più saggio a furia di farsi andare bene le cose, la saggezza arriva in punta di piedi, non fa tanto rumore. L’occasione propizia che gli si era presentata sarebbe stata vana senza quella saggezza che gli era cresciuta dentro.

La prima occasione, mettere fine alla storia con Virginia, poteva rappresentare l’inizio della riscossa. Ma non bastava. Da quel momento avrebbe dovuto riprendere in mano sé stesso, saldamente, senza raccontarsi più menzogne. C’era una ricetta per poterlo fare? Da chi avrebbe potuto imparare? Si era guardato indietro, non aveva avuto grandi maestri, punti di riferimento da cui lasciarsi ispirare. Li aveva cercati nei suoi cantautori, tra le strofe delle canzoni di Eros, di Baglioni e in qualche figura immaginaria che non trovava riscontro nella realtà.

In quante occasioni, da ragazzino, avrebbe voluto sentire un braccio forte a cui aggrapparsi, un consiglio giusto.    

“Dirsi la verità è la faccenda più complessa del mondo”, lo sapeva bene e per lui lo era sempre stato perché, poi, avrebbe dovuto fare il passo successivo: scegliere la direzione del cambiamento e perseguirlo.

Dalla sua famiglia d’origine aveva appreso l’arte dell’accontentarsi, ma non gli andava più bene. Forse i suoi bisogni erano troppi, si doveva far bastare quello che aveva? Ma, se non era felice, quello che aveva non bastava

Conosceva persone veramente felici?

C’era una ragazza che incontrava spesso lungo il percorso per il suo ufficio, gli era capitato di vederla ferma al semaforo, in attesa che scattasse il verde, sperando che il tempo si dilatasse, così da poterla ammirare a distanza.

Non si erano mai parlati, lei non lo aveva mai degnato di uno sguardo ma non era un problema, non gli andava di attuare una strategia di corteggiamento, aveva altro a cui pensare, ora. Certe fantasie, però, gli erano venute, eccome se gli erano venute! Con quei glutei sodi e scolpiti che s’intravedevano dai jeans rosa e attillati…

Jeans rosa era indubbiamente bella e accattivante, lo era senza saperlo. Non si atteggiava, non impiegava il corpo per ottenere consensi, come invece facevano tante donne.

Si muoveva con grazia come se planasse e dava l’impressione di essere leggera nel corpo e nei pensieri. Il suo esatto opposto. Quale poteva essere il suo segreto, sempre ne avesse uno?

Quando Paolo s’imbatteva in lei ne faceva il pieno per i giorni a venire. Ne respirava la grazia, quel senso di pace che traspariva dal volto, dalle movenze. Immancabilmente, poi, il suo sguardo finiva lì, sui glutei sodi e le gambe toniche che, certi giorni, metteva in risalto con un bel paio di tacchi sopra i quali si muoveva con spavalda eleganza.

Chissà se era fidanzata, a vederla doveva stare molto bene con lui. Fortunato chiunque fosse! E che lavoro faceva? Cosa facevano i suoi genitori? Jeans rosa sapeva smuoverlo come nessun altro, nel corpo e nella testa. Probabilmente proveniva da una famiglia moderna, di quelle che ti buttano subito nel mondo senza troppe raccomandazioni: esplora, cerca il tuo posto, se cadi ti rialzi.

Quella di Paolo era, invece, una classica famiglia lombarda piccolo borghese, dedita al lavoro, a mettere da parte qualcosina che “non si sa mai domani”. Un microcosmo fermo e prevedibile in cui si festeggiavano le ricorrenze, si onoravano i morti e non erano previsti progetti a lunga scadenza. Ci si affidava al Signore, quello sì. Ecco, anche la religione tra le mura domestiche era stata dispensata più come un dogma che non come una ricerca interiore.

Tutto si risolveva in superficie, seguendo un copione già scritto, si pregava Dio e qualche santo, si andava in chiesa la domenica con l’abito buono, ci si battezzava. Ogni tanto si ottemperava la confessione, “i peccati non devono restare troppo a lungo dentro di noi” diceva sua madre.

L’anima era vista come un quaderno per bambini, ogni pagina era un giorno, se commettevi qualche peccatuccio andavi da Don Michele che strappava quel foglio e con un segno della croce e un Padre Nostro, ti metteva davanti al naso quello successivo, tutto bianco e immacolato.

Il padre di Paolo lavorava in banca e ne andava fiero, si era sempre sentito un privilegiato a far parte di quel piccolo mondo protetto: la banca era un luogo saldo, inespugnabile, una specie di fortezza capace di ammortizzare i duri colpi della sorte. Aveva imparato anche lui ad accontentarsi del suo ruolo, una mansione secondaria difficile persino da schedare. Non che amasse pronunciare quella parola “passacarte” anche se lo era a tutti gli effetti e, tutti attorno a lui, lo chiamavano così. L’uomo tuttofare obbediente e servizievole che scatta alle richieste dei grandi capi.

Sua madre aveva lavorato in una industria tessile, fin da ragazzina; essendo di bella presenza aveva fatto la commessa nei negozi di abbigliamento nel centro di Milano, poi si era riciclata in lavori di manifattura in qualche fabbrica, giusto per sbarcare il lunario.

Avrei potuto accontentarmi ma è così che si diventa infelici, aveva ragione Bukowski.

Quell’aforisma letto da qualche parte gli calzava a pennello e se l’era scritto sulla prima pagina dell’agenda: gli serviva da monito.

˂˂Non basta provarci, ora devo anche riuscirci. Me lo devo˃˃. Nessuno avrebbe esaudito il miracolo al posto suo, solo lui lo avrebbe potuto far accadere. Si trattava di capire come.

Un’idea ce l’aveva. Era solo un inizio, un piccolo tassello del grande mosaico che avrebbe dovuto mettere insieme. Una partita a tennis prenotata per le 18 al solito campo con il maestro che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sul tennis.

Erano anni che non impugnava più una racchetta, anni che non faceva un po’ di movimento fisico, ma quello poteva rappresentare un inizio.

Faccio schifo, aveva pensato scrutandosi allo specchio con uno sguardo diverso dal solito, meno comprensivo e accondiscendente. Questa volta si era proprio guardato bene, in maniera chirurgica, occhi scrupolosi e inflessibili, occhi che non perdonano.

Si era soffermato sulla prominenza dell’addome, i pettorali inflacciditi dall’inerzia, la stessa che lo aveva guidato sull’orlo del baratro.

Senza esitare aveva preso il cellulare, digitato la sezione ‘rubrica’, rintracciato il numero di Enrico il maestro di tennis, inviato un vocale. Nel giro di pochi minuti aveva ricevuto una risposta.

Per troppe mattine nello specchio aveva visto un uomo ordinario, come gli capitava di vederne tanti in giro: in ufficio, al supermercato, in posta, all’uscita del cinema.

Nessun dettaglio particolare, solo l’anonima riproduzione di uno stesso modello.

Non voglio più essere ordinario. Non mi sento uguale a tutti gli altri.

Paolo aveva spento il pc, salutato frettolosamente i colleghi d’ufficio, senza travisare il benché minimo interesse nei loro occhi; probabilmente anche lui stava facendo la stessa fine e gli altri lo vedevano così: noioso, banale, uno senza arte né parte.

Eppure, da bambino aveva sognato di fare ben altro. Intanto, di scrivere canzoni, quelle che se le ascolti ad occhi chiusi, o mentre guidi in autostrada di notte, possono modificare il modo di guardare alla propria vita. Andava in fissa per le parole e la schiettezza con cui certi cantautori sapevano mettere in musica la vita vera, ricorrendo a immagini forti, strofe e ritornelli che ti si incollano dentro e diventano parte di te.

Poi, aveva pensato che quello sarebbe potuto restare solo un passatempo, un bellissimo passatempo; c’è chi colleziona stampe antiche, chi si immerge in alto mare con la bombola dell’ossigeno, e chi scrive canzoni. Aveva bisogno di un lavoro più sicuro nel quale potersi identificare appieno. Se c’era una materia da cui era sempre stato attratto, quella era la psicologia. Si vedeva in uno studio ben arredato, intento ad ascoltare i patemi dei suoi pazienti, inducendoli a mettere chiarezza nella giungla delle scelte sbagliate e delle recriminazioni. Cosa poteva esserci di più gratificante che l’aiutare gli altri a far pace col passato e a conferire un nuovo senso ad un’esistenza altrimenti vuota?

E, invece, era finito a fare l’impiegato per una multinazionale del settore tecnologico. Inseriva ogni giorno, per otto ore al giorno, dati sterili di cui non gli fregava niente, in un inerme, freddissimo pc.

Non c’era il benché minimo coinvolgimento emotivo in quello che faceva e tutto era sempre uguale al giorno prima, alla settimana prima, all’anno prima.

Gli orari d’ufficio, i colleghi e la loro espressione disillusa e quello che si dicevano, sempre gli stessi discorsi triti e ritriti da cui Paolo cercava di tenersi a debita distanza.

A fine mese aveva il suo stipendio sicuro, la malattia e le ferie pagate, la dodicesima e la tredicesima - si diceva certi giorni bui - prendendo a prestito il pensiero paterno: Di questi tempi… c’è gente che se lo sognerebbe un lavoro come il tuo.

E allora si convinceva che, in fondo, non era tutto così meschino, qualcuno stava peggio di lui, milioni di individui sulla faccia della Terra consumavano il loro tempo esattamente come lui faceva dentro quell’ufficio, digitando tasti, inserendo dati per lui inutili, inviando mail a emeriti sconosciuti. Non era un privilegiato ma nemmeno il più sfigato della Terra. Era solo uno dei tanti, ma adesso, diventare < uno tra tanti>

Anche quel giorno Paolo non desiderava altro che staccare la spina, l’attendevano una partita a tennis, la vecchia racchetta, le scarpette con le suole lise da una passione che si augurava di poter ritrovare. Lo aspettavano anche un paio di calzoncini in microfibra nuovi di zecca, il cartellino ancora attaccato; gli era mancato l’intraprendenza di provarli in quel negozio con la commessa carina che avrebbe sicuramente chiesto: “come vanno?” magari volendo appurare di persona. Ma ora la prova gli toccava: se non ci fosse entrato dentro? Dall’ultima partita aveva messo su almeno una decina di chili, tutti lì: impietosi, attorno al giro vita.  

Nello spogliatoio si era infilato nei calzoncini blu dopo aver strappato a forza il cartellino con le indicazioni per il lavaggio, ˂taglia azzeccata!˃ poi, nella maglietta extralarge. Si era allacciato una felpa in vita come un adolescente e aveva raggiunto il campo.

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